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La natura del cacao 2

La natura del cacao 2

 

Dal frutto al seme di cacao

Il fusto dell’albero tropicale da cui deriva il cacao, Theobroma cacao L., presenta 5 rami a corona da cui si formano successivi rami fino a raggiungere un’altezza superiore ai 20 m allo stato selvatico e 5 m con una singola corona quando coltivato. 

theobroma cacao

La sua coltivazione è collocata in un ristretto areale del globo a causa di particolari esigenze pedo-climatiche. E’ compreso fra il 23° parallelo Nord e il 20° parallelo Sud entro 500 m s.l.m., eccetto che in Camerun, in Colombia e in Uganda, per il clima. La specie richiede infatti climi caldo-umidi, temperature comprese tra 20°c e 30°C e umidità costante all’85%. Sono essenziali precipitazioni abbondanti ben distribuite, con una stagione secca di massimo tre mesi. Terreni profondi, permeabili e non molto argillosi, con buona capacità di ritenzione idrica. Viene coltivato all’ombra di altre specie ad alto fusto (banane e palme da cocco) perchè non tollera l’insolazione diretta. I fiori sono piccoli, a grappoli, originano direttamente dal tronco e dai rami.  Solo lo 0,5-5% dei fiori origina frutti che giungono a maturità. Il frutto, bacca denominata cabosse, è variabile in forma, dimensione e colore, lungo 10-32 cm, largo 7-10 cm, peso 400-1000 g. Si presenta sferico, cilindrico, appiattito o smussato, liscio o rugoso, con o senza 5-10 solchi, duro o morbido a maturità.  Il pericarpo è spesso ed assume colori differenti a seconda del grado di maturazione, variando dal verde al giallo o dal rosso all’arancione. La maturazione dei frutti dura tra 4 e 7 mesi e le loro caratteristiche variano anche all’interno della stessa varietà. 

cabossa
Cabossa, frutto del cacao
fiori cacao
Fiori del cacao

I semi, denominati fave, sono disposti in file regolari all’interno di una polpa mucillaginosa in numero di 20-60 per frutto. Le dimensioni sono variabili: lunghi da 2 a 4 cm e larghi da 1,2 a 2 cm, con forma ovoidale-ellittica. I semi durante la fermentazione imbruniscono assumendo il tipico colore bruno-rossastro dopo l’essiccazione. I frutti vengono raccolti due volte l’anno (Febbraio-Marzo e Aprile-Luglio in Sud America). Gli alberi diventano produttivi a 5-6 anni di età, raggiungono il massimo della resa dopo 20-30 anni e la mantengono fino a circa 40 anni.

sezione cabossa

Varietà e “cru”

Si conoscono 2 varietà di cacao: criollos (o finos) e forasteros (o amazonicos). I cacao criollos si trovano principalmente in Messico, Colombia e Venezuela. E’ il cacao originario, consumato dalle popolazioni precolombiane. Molto suscettibile alle malattie e alle infezioni e la grave riduzione dell’habitat tipico, specialmente in Messico e nel Centro America, è causa della sua rarità (circa il 5% della produzione mondiale). I semi hanno un potente profumo ed un aroma gradevole e penetrante, un gusto sottile ed aromatico, in generale di qualità eccellente. Fra i crus più famosi: Chuao, Puerto Cabello, Porcellana, Venezuela, Sambirano del Madagascar, criollo d’Indonesia. Sono cacao raramente utilizzati puri, aggiunti in miscele dall’aroma “debole” e non persistente per migliorare le caratteristiche. I cacao forasteros costituiscono un gruppo molto diversificato in varietà ed è la varietà più coltivata in Africa e nel mondo (85%). Gli alberi sono robusti e meno soggetti a malattie. I semi hanno un sapore forte e senza aroma, pertanto di qualità mediocre. In genere vengono usati in miscela con varietà più pregiate per migliorare i valori organolettici. Il cacao trinitario, originario di Trinidad ed introdotto in altri paesi (America latina, Sri Lanka, Indonesia), è un ibrido ottenuto dall’incrocio del criollo, di cui possiede la finezza dell’aroma, con il forastero, di cui possiede la particolare robustezza alle malattie. Presenta un gusto fruttato e persistente (dal 10 al 15% della produzione mondiale).

Ogni produttore di cioccolato sceglie accuratamente miscele di particolari crus per donare profumo, persistenza di aroma e corpo al cioccolato.

varietà cacao

Raccolta, fermentazione, essiccazione

I frutti vengono raccolti non eccessivamente maturi con un particolare machete. Le cabosse vengono aperte, estratte le fave insieme alla mucillagine biancastra, acidula, ricca di carboidrati e acqua, e sottoposte a fermentazione naturale prima dell’essiccazione (fa eccezione il cacao Arriba e Machala, tipici del Sud America). La fermentazione “estrattiva” è fondamentale per la lavorazione del cacao. Viene generalmente operata all’aperto. Le fave ricoperte della mucillagine vengono adagiate su foglie di banano, stuoie, barili o su appositi contenitori di legno traforati che permettono la percolazione del liquido di fermentazione. 

Il processo di fermentazione viene fatto ad opera di microrganismi naturalmente presenti sulla matrice vegetale e nell’ambiente quali lieviti, batteri acetici e lattici, e da reazioni enzimatiche, e varia da 2 a 12 giorni a seconda delle tradizioni, del clima e delle varietà. Quelle più pregiate fermentano più velocemente (criollo, 1-2 giorni), quelle di varietà inferiore richiedono più tempo. Durante questa fase le fave vengono saltuariamente rivoltate per ottimizzarne l’ossigenazione. La temperatura di fermentazione pari a 40-45 °C e l’acidificazione naturale, sono in grado di inibire la capacità germinativa dei semi.  Parametri chimici come colore e aroma delle fave di cacao vengono modificate, e l’astringenza e l’amaro tipico delle fave fresche tende a scomparire. (carattere invece apprezzato in alcune crus). Dopo la fermentazione le fave assumono il tipico colore bruno-scuro rossastro. Segue l’essiccamento del cacao al sole o mediante riscaldamento artificiale, riducendo l’umidità fino al 5-8%. È la fase cruciale che consente di evitare lo sviluppo di muffe durante lo stoccaggio e il trasporto via mare dei sacchi di fave di cacao verso i trasformatori di tutto il mondo. Il cacao viene poi pulito e vagliato secondo la qualità e le dimensioni delle fave.

fermentazione cacao
Prosciutto di Carpegna DOP del montefeltro

Prosciutto di Carpegna DOP del montefeltro

 

Carpegna è un comune marchigiano situato nella provincia di Pesaro-Urbino. Tra le particolarità che il territorio offre si nasconde una delle eccellenze italiane riconosciute dall’Unione europea, il “Prosciutto di Carpegna” DOP.

Significato di “Denominazione di Origine Protetta”

“è un nome che identifica un prodotto originario di una specifica area geografica, che ne determina la qualità e le caratteristiche, ed in cui si svolgono le fasi della sua produzione”.

Denominazione Origine Protetta
marchio DOP

Per un produttore ottenere la certificazione DOP, vuol dire rispettare con orgoglio e dedizione un Disciplinare di Produzione approvato dall’UE. Per un consumatore scegliere un prodotto DOP, significa scegliere la qualità e la storia. Per l’Autorità di controllo, consiste nel verificare che il produttore rispetti il Disciplinare e gestisca la produzione secondo i criteri della sicurezza alimentare.

Prosciutto di Carpegna DOP

prosciutto di carpegna dop

Il Prosciutto di Carpegna è un prosciutto con nome registrato come DOP, tipico delle colline del montefeltro nel pesarese. La carne si ricava dall’allevamento e dalla macellazione di suini provenienti dalle Regioni Marche, Emilia Romagna e Lombardia. L’elaborazione del prosciutto invece, deve avvenire nella zona tradizionalmente vocata del Comune di Carpegna. Sono il clima e le condizioni ambientali del ciclo produttivo a determinare gli attributi unici del Prosciutto di Carpegna DOP. Il salume può considerarsi pronto per la vendita alla conclusione di 13 mesi di stagionatura eseguita in ambienti a temperatura compresa tra 15°C e 20 °C ed umidità relativa del 65-80%. A contraddistinguere il Prosciutto di Carpegna DOP sono il profumo delicato e penetrante di carne stagionata, il gusto delicato e fragrante, la consistenza tenera ed elastica delle carni. Le caratteristiche organolettiche apprezzate da noi consumatori sono affiancate da quelle fisiche (forma della coscia tondeggiante tendente al piatto, non globosa, con sufficiente strato di grasso nella parte opposta all’anca, il peso non inferiore a 8 kg, il colore al taglio tendenzialmente rosa salmonato, con adeguata quantità di grasso solido, di colore bianco rosato all’esterno) e chimico-fisiche. E’ possibile acquistarlo intero, disossato, confezionato, anche affettato, sottovuoto o in atmosfera modificata, purchè i prosciutti vengano stagionati per almeno 14 mesi.

marchio di origine
Marchio di qualità

Il contrassegno è esclusivamente costituito dal simbolo in figura, rilasciato dal consorzio di tutela ed apposto con marchiatura a fuoco. Nato nel 2015, il consorzio di tutela ha l’obiettivo di tutelare e valorizzare il Prosciutto di Carpegna DOP in Italia e all’estero. 

Dobbiamo ringraziare i maestri salumieri che, dal Medioevo ad oggi, hanno tramandato il Prosciutto di Carpegna da generazione in generazione. Gesti e tecniche perfezionate dalla passione e dalla tradizione, adeguate ai metodi moderni, rendono al Prosciutto di Carpegna DOP l’eccellenza che merita.

Ciauscolo IGP, identità di una piccola area appenninica

Ciauscolo IGP, identità di una piccola area appenninica

 

La principale caratteristica merceologica che contraddistingue il “Ciauscolo” IGP dagli altri insaccati, è la sua morbidezzaspalmabilità. Questi attributi vengono ottenuti dalla particolare composizione dell’impasto di carne, dalla percentuale di grasso, dalla macinatura fine, dalle specifiche tecniche di lavorazione e dall’ambiente. Il territorio marchigiano e le condizioni climatiche peculiari per la produzione del Ciauscolo IGP, sono strettamente legate alla presenza della catena appenninica umbro-marchigiana ad occidente e dal mare Adriatico ad oriente. Nel mezzo, le vette mentre raggiungono il mare si appiattiscono dolcemente, creando un paesaggio collinare.

In origine era il ciauscolo

Il termine “ciaùscolo” e “ciavuscolo”, sembra derivi da “ciabusculum” di origine romana. Secondo la tradizione contadina, il ciauscolo veniva consumato a piccole dosi come spuntino tra la colazione e il pranzo, e tra il pranzo e la cena. Le tecniche e metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura, consolidate nel passato e tramandate come tradizione, sono il frutto della manualità e dell’artigianalità legate ai fattori pedoclimatici dell’area, che consente al Ciauscolo IGP di differenziarsi con grande reputazione dagli altri insaccati. I racconti dei nonni ai nipoti, le usanze, le memorie, tengono viva la tradizionale macellazione e lavorazione domestica del maiale, che sono sempre stati momenti di grande festa, convivialità e socializzazione tra le famiglie.

pista marchigiana
Tradizionale mattazione del maiale

Oggi è il Ciauscolo IGP

L’Indicazione Geografica Protetta “Ciauscolo”, è riservata al prodotto di salumeria che isponde alle condizioni e ai requisiti disposti dal Disciplinare di Produzione. Il Ciauscolo IGP è un prodotto della lavorazione del suino pesante, costituito da tagli di carne suina (pancetta massimo 70%, spalla massimo 40%, rifilature di prosciutto e di lonza massimo 30%), addizionato di alcuni ingredienti, macinato finemente, insaccato e stagionato. Per il consumo e l’immissione nel mercato il Ciauscolo IGP deve rispettare alcune caratteristiche dettate dal Disciplinare. Inoltre,  deve emanare l’inconfondibile profumo delicato, aromatico, tipico, deciso e speziato, con un gusto sapido e delicato, mai acido.

IGP – Indicazione Geografica Protetta

Il marchio IGP comporta che la zona di produzione del ciauscolo appartenga ai comuni delle provincie di Ancona, Macerata e Ascoli Piceno. Ogni fase del processo produttivo deve essere documentata, in modo da dare l’opportunità alle Autorità di controllo di verificare l’effettiva origine delle materie prime e il rispetto dei requisiti previsti dal Disciplinare di Produzione.

Fasi della produzione

La procedura parte dalla scelta della razza del suino, passa per la sua alimentazione, l’età di macellazione ed arriva alle fasi di lavorazione della carne, la “pista” (macinatura, lavorazione dell’impasto, insaccatura, legatura, asciugatura e stagionatura). I diversi tagli della carne vengono macinati con il “tritacarne” evitando di riscaldare il prodotto. Devono essere fatti due o tre passaggi fino ad ottenere una sorta di crema. Alla carne vengono aggiunti gli ingredienti tradizionali, sale, pepe nero macinato, vino e aglio pestato, e viene impastata a mano o a macchina. 

lavorazione ciauscolo

Una volta lasciata riposare in ambiente refrigerato, il prodotto viene insaccato in budello naturale di maiale o bovino, prima lavato e disinfettato in acqua tiepida, vino o aceto. Il budello man mano che viene riempito di carne viene bucato con la “piccarella” per evitare la formazione di bolle d’aria. Con lo spago le estremità dell’insaccato vengono legate, e viene appeso a mezz’aria su apposite strutture, le “pertiche”, per sottoporlo a preliminare asciugatura (4-7 giorni).  Segue l’asciugature ed infine la stagionatura. E’ la fase cruciale della produzione del Ciauscolo. Deve durare minimo 15 giorni e deve avvenire in locali alla temperatura fra 8°C e 18°C, e l’umidità fra il 60% e 85%. Al termine del periodo il Ciauscolo viene esaminato per verificare l’idoneità al marchio IGP e venduto come Ciauscolo IGP.

Il consorzio di tutela non è stato ancora fondato anche se ci sono novità all’orizzonte. Lo scorso marzo 2022, la richiesta avanza dall’Università di Camerino di diventare la sede del consorzio di tutela del Ciauscolo IGP è stata accettata. Pertanto questo accordo porterà alla valorizzazione e alla promozione dell’eccellenza marchigiana, il Ciauscolo IGP.

LA NATURA DEL CACAO 1

LA NATURA DEL CACAO 1

 

La storia ebbe inizio con i maya

Con “la storia ebbe inizio con i maya” si apre il primo dei tre articoli dedicati al cacao. Si ripercorrono le origini e la coltivazione del cacao, fino a raggiungere il cioccolato che oggi conosciamo. 

Etimologia dei termini

Anche se associato all’azteco Cacahuatl “sostanza estratta dai semi”, l’origine del termine “cacao” resta incerta. Cacahuatl sembra derivi dall’unione delle parole kakawaalt (acqua); la cioccolata era infatti preparata mescolando polvere di cacao fermentato e torrefatto con acqua e spezie.

cacao maya

Il termine “cioccolato” invece, sembrerebbe derivare da xocoyac (pronuncia: tciocoalt) che vuol dire fermentareCabosse, termine con cui si indica il frutto intero dell’albero del cacao, probabilmente deriva dallo spagnolo “cabeza” (testa), per la somiglianza delle forme.

Da dove viene il cacao?

L’albero del cacao, Theobrama cacao (cibo degli dei, richiamo al culto che i popoli precolombiani gli dedicavano), è originario delle foreste umide dei tropici americani nelle Ande dell’Ecuador e della Colombia, tra i fiumi Napo, Putumayo e Caquetà. 

albero di cacao

Dobbiamo ringraziare i maya se oggi abbiamo il privilegio di mangiare ed utilizzare il cioccolato. Si sono occupati della diffusione, di addomesticarlo, coltivarlo e tramandare il culto alle civiltà successive, i tolechi e gli aztechi. Furono proprio gli aztechi a farlo conoscere ai conquistadores spagnoli all’inizio del XVI secolo. Tradizionalmente veniva servito il forma di bevanda fresca, amara, densa, piccante e rossa per l’aggiunta di peperoncino, pepe e annatto. Solo gli europei aggiunsero zucchero e spezie per mascherare il tipico sapore amaro e astringente del cacao.

L’arrivo del cacao in Europa e in Italia

Sembra che il primo contatto europeo con il cacao sia avvenuto nel 1502, durante il quarto viaggio di Cristoforo Colombo nelle Americhe, dall’incontrò con una canoa indigena che navigava dallo Yucatàn all’Honduras. Però, il merito del trionfo del cacao in Spagna si deve a Hernan Cortés che, nel 1528, vide la preparazione della cioccolata alla corte di Montezuma II (sovrano azteco) e portò in Spagna la “ricetta”. Infatti, appreso dagli aztechi il valore smisurato del cacao, le coltivazioni incrementarono dal Centro America, Messico e Nicaragua, fino a raggiungere le coste del Venezuela, l’isola di Trinidad e il Brasile. Come gli spagnoli, anche gli inglesi e i francesi, più tardi, portarono la coltivazione del cacao nelle loro colonie.

L’Italia dopo la Spagna, fu la seconda nazione europea a consacrare la popolarità della cioccolata. Merito di Antonio Carletti, commerciante fiorentino che, nel 1606, portò nel nostro paese il cacao insieme alla ricetta della cioccolata.

Il risultato dell’associazione cacao-menti geniali

maitre chocolatier

Non appena sbarcato ed apprezzato in Spagna, anno dopo anno, la cultura del cioccolato si evolse adeguandosi ai fatti storici e alle menti geniali che incontrava nella sua avanzata tra le popolazioni.

In Italia la fortuna del cioccolato partì a Torino nei primi anni del 1700. Città che ne divenne capitale, conservando tutt’oggi la fama. I maestri cioccolatieri inventarono nuove ricette sulla scorta di quella portata da Carletti, come la bavarese al cioccolato e il bicerin (bevanda costituita da cacao, caffè e panna). Isidoro Caffarelli nel 1865 inventò la pasta alla gianduia,  “una miscela di nocciole finemente tritate, aggiunte di zucchero e cioccolato”, che ancora oggi rappresenta la base per la preparazione di molte ricette come i gianduiotti. 100 anni dopo, nel 1964, Michele Ferrero ad Alba, creò una variante alla pasta alla gianduia, battezzando una crema di nocciola al cacao spalmabile, prodotto celebre e conosciuto in tutto il mondo.

Tra i più rivoluzionari del settore si ricordano l’olandese Coenraad J. Van Houten che, nel 1828, ideò una macchina per separare il grasso dalla pasta liquida che si otteneva macinando i semi tostati. Questa sorta di pressa faceva ottenere 3 prodotti: il burro di cacao, la pasta di cacao solida e la polvere di cacao polverizzando la componente solida.

Henri Neslté e Daniel Peter in Svizzera, nel 1875, inventarono il latte condensato e il cioccolato al latte.

Nella fabbrica di David Sprungli, Rodolphe Lindt, nel 1879, lasciando accesa per errore la macchina per il concaggio, ottenne un cioccolato liscio, dal sapore equilibrato e fondant “che si scioglie in bocca”. Mise quindi appunto il processo del concaggio, dando il via all’era del cioccolato fondente.  

cioccolato

Il cacao nel corso degli anni ha subito delle evoluzioni, alcune provocate da sperimentazioni ragionate, altre invece ottenute per pura casualità. Certo è che sono stati i maya a fondare le radici del culto del cacao, mettendo appunto e selezionando le specie di cacao da poter coltivare e le preparazioni. In considerazione che per loro il cacao rappresentava alimento e merce di scambio.  

VOSTRA MAESTA’ I VINCISGRASSI

VOSTRA MAESTA’ I VINCISGRASSI

 

Servono almeno 7/8 strati visibili di pasta all’uovo, besciamella e sugo rosso di carne

La Storia dei Vincisgrassi

Era il 1891, quando gli allora chiamati Vigras fecero la prima apparizione scritta nella raccolta di ricette Il cuoco perfetto marchigiano. Quella stessa ricetta era stata ritrovata in un ricettario anonimo stampato 30 anni prima presso la tipografia di Pacifico De Rossi a Loreto, Il cuoco delle Marche, e quella stessa versione, sistemata nel capitolo Dei timballi, sembra sia la più riconducibile al piatto ideato da Antonio Nebbia all’interno del settecentesco Cuoco maceratese.

«Imbutirrare una “casseruola”, posizionare sul fondo una “stella di fette di prosciutto”, spolverizzarla di pane grattato e rivestirla con lasagne di “sfoglia come quella dei tagliolini” (identico precetto del Nebbia) fino ai bordi. Iniziare gli strati con parmigiano grattugiato, “ragù d’animelle e tartufi” (erano prosciutto e tartufi nella prima versione del Nebbia), “pezzetti di butirro fresco”, spezie varie pregiate (“cannella fina, pepe schiacciato, e noce moscata”) e besciamella (chiamata all’ora “balsamella”). Cottura al forno e rovesciato sul piatto da portata», era la versione dei Vigras di Antonio Nebbia.

Fu poi il cuoco Cesare Tirabasso di Montappone che, nel 1927 con La guida in cucina. Cinquecentotre ricette marchigiane e nazionale, alleggerì e rivisitò in chiave moderna le attuali ricette marchigiane, tra cui la versione più povera del timballo.

«ricoprire un “piatto rotondo” con una pastella di acqua e farina, “colorita poscia con tuorli d’uovo” (simile al Nebbia) su cui si versa la “sfoglia come quella dei maccheroni” tagliata “in tanti pezzi larghi due dita e lunghi uno”, con un condimento di salsa di animelle, parmigiano, cannella e burro».

La tenacia della tradizione ha permesso di mantenere pressoché uguale la ricetta degli attuali Vincisgrassi a quella del suo prozio Vigras. Con la stessa risolutezza con cui i Vincisgrassi sono rimasti nelle case dei marchigiani e con cui sono stati tramandati nella cultura da generazione in generazione, oggi con fierezza possiamo dire che quegli stessi Vincisgrassi fanno ufficialmente parte delle eccellenze italiane.

I progressi della tradizione

Oggi i nostri Vincisgrassi alla maceratese sono riconosciuti in Europa come Specialità Tradizionale Garantita STG, hanno un disciplinare di produzione ed insieme al Ciauscolo IGP, al Prosciutto di Carpegna DOP, alla Vernaccia di Serrapetrona DOP, contraddistinguono le Marche in Italia e in Europa. 

Disciplinare di una Specialità Tradizionale Garantita «Vincisgrassi alla maceratese»

Vincisgrassi STG

La motivazione della registrazione è riferita proprio alle nostre radici, «dalla ricerca storica si evidenzia l’uso tradizionale degli ingredienti specifici nella provincia di Macerata» […] «I Vincisgrassi alla maceratese sono una primo piatto gratinato ottenuto da tre preparazioni base: la pasta all’uovo fresca, il sugo di condimento con frattaglie e la besciamella, a cui viene aggiunto del formaggio grattugiato Parmigiano DOP o Grana Padano DOP». 

Nel sito del MIPAAF (Ministero delle Polotiche Agricole Alimentari e Forestali) è reperibile la proposta di registrazione approvata dalla Commissione europea e siamo in attesa della creazione della pagina dedicata ai Vincisgrassi alla maceratese e dell’uscita in Gazzetta Ufficiale del disciplinare definitivo.

Di seguito il link del portale delle Denominazioni italiane DOP, IGP, STG, dove restare sempre aggiornati sui prodotti di qualità.

https://dopigp.politicheagricole.it/

I COLORI MILLENARI DELL’UOVO DI PASQUA

I COLORI MILLENARI DELL’UOVO DI PASQUA

 

Non è semplice trovare le origini dell’uovo di Pasqua. Si pensa che i primi ad omaggiare l’inizio della primavera proprio con delle uova variopinte furono i persiani (attorno al 500 a.C.). Nel villaggio di Neuwise in Germania, il tradizionale mercato pasquale ci ricorda questa antica cultura introdotta dal lontano Medioevo.

Il semplice uovo, prima svuotato del tuorlo e dell’albume, viene dipinto a mano con decorazioni colorate, i cui disegni ricordano le origini dell’artista. Per dipingere un normale uovo di gallina si impiegano tra le 4 e le 7 ore; per quello di struzzo fino a 20.

uova di pasqua decorate

Perchè proprio l’uovo?

L’uovo, in tutte le culture antiche, veniva associato alla vita e alla rinascita. Per gli antichi egizi era l’origine, il fulcro dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco), per i persiani era la rinascita della natura dopo l’inverno. Nel Cristianesimo diventò simbolo del miracolo della resurrezione di Cristo. Dal lato pratico durante il periodo della Quaresima (40 giorni prima di Pasqua in cui la dottrina cattolica prevedeva il “digiuno ecclesiastico”), non potendole mangiare e per non sprecarle venivano bollite, dipinte e regalate ai fedeli. Nel tempo il popolo portò avanti quest’usanza, colorandole sfruttando l’acqua, il calore e i pigmenti naturali dei fiori. Tra i nobili e gli aristocratici invece, vennero trasformate ed adornate con materiali preziosi.

Chi ha messo la sorpresa nell’uovo?

Anche rintracciare l’ideatore della sorpresa nell’uovo non è semplice. Esistono almeno tre fonti discordanti.

Una da il merito a Peter Carl Fabergé, orafo della corte dello Zar Alessandro III e padre delle Uova Fabergé. Un uovo che conteneva un altro uovo in oro, che a sua volta conteneva altri due doni (la collezione imperiale vanta 52 meravigliosi esemplari)

uova di faberge
uovo di pasqua

Un’altra combacia con l’arrivo in Francia della cioccolata dalle Americhe e sboccia alla corte di re Luigi XIV. L’altra rimanda ai maestri cioccolatieri torinesi che, nel 700, avrebbero dato il via alla tradizione del regalo all’interno di uova prodotte con il cioccolato.

Il ruolo del cacao

Pioniere dei processi tecnologici nel trattamento del cacao, ingrediente base delle uova di cioccolato, è stato Francoise Louis Callier che, nel 1819, fondò in Svizzera il primo stabilimento per la produzione di cioccolato. Callier ideò un macchinario che trasformava i semi del cacao in una pasta manipolabile, il cioccolato. 

Tuttavia, solo con la Rivoluzione Industriale arrivò l’innovazione che avviò la diffusione della nostra tradizione, regalare le uova di cioccolato durante le feste pasquali. Oggi, l’uovo di cioccolato dai mille gusti che conosciamo, rappresenta l’anima della Pasqua, il simbolo che porta nelle nostre case colori, gioie e sorrisi, sia per i più grandi che per i più piccolini.

uovo di pasqua

Una felice Pasqua a tutti dallo staff dello Studio Giammarini!

SICUREZZA SUL LAVORO, STRETTA SUI CONTROLLI E LE SANZIONI

SICUREZZA SUL LAVORO, STRETTA SUI CONTROLLI E LE SANZIONI

 

Con la legge 215/21 dello scorso 20 Dicembre il Governo ha deciso di stringere la morsa sulle imprese che non rispettano le misure di prevenzione e protezione, anche sulla scia dei tanti incidenti spesso gravissimi o mortali che ogni giorno purtroppo ancora si verificano.
Le novità introdotte determinano da una parte un incremento dei controlli sul territorio e dall’altra un inasprimento delle sanzioni in caso di violazioni.

MODIFICHE ALL’ ARTICOLO 18 DEL TESTO UNICO

Questo articolo tratta gli obblighi del Datore di Lavoro, e le modifiche determinano la possibilità di sanzione (compresa la sospensione dell’attività) per i casi di “omessa vigilanza”. Inoltre non sarà prevista alcuna tolleranza per la mancata elaborazione del Documento Valutazione dei Rischi (2.500 €) e per la mancata formazione ed addestramento del lavoratore (300 € per ciascun lavoratore privo).
Ricordiamo su questo ultimo punto che la formazione va completata entro 60gg dall’inizio del rapporto di lavoro per tutti i lavoratori senza distinzione di mansione, paga, tipologia o durata del contratto.
Anche il lavoro nero sarà duramente punito, con la sospensione dell’attività e l’impossibilità di stipulare contratti con le PA per tutto il periodo della sospensione, quando ci sia il 10% della manodopera irregolare.

 

INCENTIVATA E SEMPLIFICATA LA SORVEGLIANZA DELLE AUTORITA’ SUL TERRITORIO


E’ stato esteso il potere di vigilanza all’ Ispettorato del Lavoro, che affiancherà quindi i tecnici del Dipartimento di Prevenzione delle ASL nelle attività di controllo in azienda per tutti i settori lavorativi.
Sempre a questo scopo verranno assunti nuovi tecnici della vigilanza antinfortunistica nell’Ispettorato e Carabinieri per la tutela del lavoro, così da consentire una maggiore capillarità dei controlli.
 

NUOVO RUOLO DEL PREPOSTO PER LA SICUREZZA

 
La figura del preposto, già prevista nel Testo Unico, viene ulteriormente definita e ampliata nella sua importanza. Questi lavoratori dovranno infatti sorvegliare e intervenire concretamente per correggere i comportamenti non conformi alle procedure di sicurezza eventualmente messi in atto dai colleghi, correggendo e istruendoli per prevenire qualsiasi forma di infortunio o malattia associata con il lavoro che potrebbe sopraggiungere nel tempo. A questo ruolo sono infatti associate responsabilità precise in caso di inadempienza, con imputazioni che possono arrivare non solo dalla violazione delle norme ma anche per lesioni o omicidio colposo.
Il preposto dovrà quindi essere individuato (e formato) quando il Datore di Lavoro non può assicurare la sorveglianza continuativa sulle lavorazioni, ad esempio per motivi di orario o in caso di imprese con diverse sedi o reparti. Naturalmente è necessario che il preposto sia un lavoratore che possieda capacità professionali e ruolo gerarchico adatti al ruolo.
Antincendio e gestione emergenze: nuovo decreto in Gazzetta Ufficiale

Antincendio e gestione emergenze: nuovo decreto in Gazzetta Ufficiale

 

Negli ultimi venti anni come riferimento principale per la sicurezza antincendio abbiamo avuto il DM 10 Marzo 1998. Grazie all’evoluzione tecnica e normativa verificatasi nel frattempo, è nata la necessità di aggiornare e allineare anche il contenuto del DM 10 Marzo 1998.

Questo percorso di aggiornamento si è concretizzato in tre decreti, denominati:

  • Decreto Controlli che stabilisce le specifiche riguardo la manutenzione degli impianti, delle attrezzature e di tutti i sistemi di sicurezza antincendio
  • Decreto GSA con i criteri per la gestione dei luoghi di lavoro e gli standard di formazione per gli addetti antincendio
  • Decreto Minicodice dedicato ai Criteri generali di progettazione, realizzazione ed esercizio della sicurezza antincendio per luoghi di lavoro

Due di questi tre sono già stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale: il 25 Settembre 2021 per il “Decreto Controlli”, il 04 Ottobre 2021 il “Decreto GSA”.

Quest’ultimo, si concentra appunto su due aspetti principali: 

  • le modalità di gestione dei luoghi di lavoro durante l’emergenza
  • caratteristiche, competenze e modalità di formazione degli addetti che si occupano di prevenzione incendi in azienda

DECRETO GSA: COSA COMPORTA PER GLI ADDETTI ANTINCENDIO?

Per prima cosa troviamo i riferimenti al Piano di Emergenza: in tutte le realtà aziendali dove è necessario predisporre questo strumento, gli addetti devono partecipare a esercitazioni antincendio con cadenza almeno annuale.

Sono quindi delineate in modo chiaro le caratteristiche dei corsi di formazione appositi, che tutti gli addetti antincendio devono frequentare, suddivisi in base alla categoria del rischio aziendale (Attività di tipo 1, 2 o 3).
Sono previste sia la formazione iniziale per i nuovi addetti incaricati, che l’aggiornamento periodico.
In tutti i casi i corsi prevedono alcuni moduli teorici (per i quali è possibile ricorrere alla formazione online esclusivamente in videoconferenza) e delle esercitazioni pratiche.
Sparisce per i corsi “rischio basso”, che chiameremo ora Attività di tipo 1, la possibilità di svolgere la parte pratica sugli estintori avvalendosi di supporti audiovisivi come alternativa all’uso reale delle attrezzature.
Anche nei corsi rischio basso, quindi, sarà obbligatoria la simulazione d’uso reale degli estintori per i partecipanti.

Si conferma poi la necessità di conseguire l’attestato di idoneità tecnica in modo obbligatorio per le attività riportate nell’allegato IV del Decreto.

DECRETO GSA: LE NOVITA’ PER I DOCENTI

Con il nuovo testo vengono definiti in modo molto chiaro i requisiti per poter svolgere l’attività di docenza, e quindi di formazione, nei corsi dedicati agli addetti antincendio.
Viene inclusa la possibilità di abilitarsi come docente per la sola parte teorica, per la sola parte pratica, o per entrambe.

Potranno essere docenti abilitati solo coloro che:

  • dimostrano di aver maturato un’esperienza documentata specifica nell’insegnamento di queste materie 
  • hanno frequentato l’apposito corso tenuto dal Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, superando il relativo esame
  • fanno parte del personale cessato dal servizio del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco, avendo lavorato per almeno dieci anni con ruoli operativi

In ogni caso, nell’arco di cinque anni, i docenti per mantenere la qualifica dovranno frequentare gli appositi corsi di aggiornamento sempre a cura dei Vigili del Fuoco.

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Data di scadenza o Termine Minimo di Conservazione?

Data di scadenza o Termine Minimo di Conservazione?

 

Leggendo l’etichetta di un prodotto alimentare viene sempre spontaneo cercare la “data di scadenza”, per capire quanto tempo abbiamo a disposizione prima di dover gettare via il cibo in questione.

La scadenza viene spesso intesa dai consumatori anche come un “indicatore di qualità”. Quando il lasso di tempo previsto è breve, infatti, l’impressione è quella di trovarsi di fronte ad un prodotto genuino (un po’ come nel caso dell’etichetta con pochi ingredienti).

LA DATA INDICATA E’ DAVVERO UN SCADENZA?

La normativa parla di “scadenza” quando i prodotti possono, con il tempo, alterarsi e diventare pericolosi per la salute. In questo caso il produttore indicherà un limite oltre il quale l’alimento va tassativamente eliminato.

Dal giorno successivo a quella data, diventa vietato vendere e mangiare il prodotto in questione, appunto per proteggere i consumatori dai possibili rischi per la salute.

scadenza

E’ facile riconoscere questa indicazione: si presenta infatti come una scritta che recita “da consumarsi entro gg/mm/aaaa

E ALLORA QUANDO LEGGO DA CONSUMARSI PREFERIBILMENTE ENTRO?

Quando troviamo la parola “preferibilmente” vicino alla data, non siamo più di fronte ad una scadenza.
Questa indicazione si chiama infatti “Termine Minimo di Conservazione“, più brevemente TMC.

scadenza

Un alimento che ha superato il TMC non è scaduto.

I produttori possono usare il TMC per tutti quei prodotti che non diventano pericolosi col passare del tempo, e che quindi non rappresentano un potenziale rischio per la salute dei consumatori.

Il Termine Minimo di Conservazione indica il periodo entro il quale l’alimento conserva intatte tutte le sue caratteristiche, come se fosse appena prodotto.
Superata quella data, entro un lasso di tempo variabile, il prodotto potrebbe iniziare ad avere qualche difetto senza però risultare pericoloso.

Ricordare questa differenza è fondamentale per evitare sprechi di cibo sia in casa che nella filiera di produzione e distribuzione.
Nel 2016 è stata anche varata la Legge Gadda (L 166/2016) che ribadisce che questi alimenti possono essere donati a condizione che siano ancora integri e imballati.

Fondazione Banco Alimentare Onlus e Caritas Italiana hanno realizzato un Manuale di buone prassi operative per le organizzazioni che si occupano di recupero e distribuzione delle eccedenze, nell’ambito della filiera dell’aiuto alimentare. Il Manuale è stato validato dal Ministero della Salute a dicembre 2015, in conformità al Regolamento CE n. 852/2004.

Riportiamo qui di seguito le indicazioni riportate nel Manuale, utili per tutti.

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PRODOTTI A MARCHIO BIO: COME FUNZIONA LA CERTIFICAZIONE

PRODOTTI A MARCHIO BIO: COME FUNZIONA LA CERTIFICAZIONE

 

Un prodotto biologico è “un prodotto alimentare ottenuto mediante la produzione biologica, un insieme di metodi di produzione conformi al Regolamento (UE) n. 2018/848 in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione”.

Il Marchio BIO non è solo la spiga stampata sull’etichetta, ma racchiude molto più di ciò che si pensa.

La prima cosa da chiarire è che, la Certificazione BIO non si limita al prodotto alimentare inteso come “cibo”, infatti, è estesa ad ogni fase necessaria alla realizzazione di esso, secondo la più ampia visione europea del “from farm to fork”, dai campi alla tavola.

Non è solo questione di marchio!

Quando si decide di intraprendere la strada per ottenere la Certificazione BIO, ci si apre ad una serie di vantaggi che vanno oltre il prodotto.

Un prodotto o servizio con il marchio BIO implica un sistema di gestione e di pensiero volto alla sostenibilità che creano un valore aggiunto alla propria azienda, e mette al centro sia l’ambiente che il consumatore.

L’obiettivo è infatti generare un’agricoltura che rispetti maggiormente l’equilibrio della natura e mantenga un alto livello di biodiversità, tenendo comunque il passo con le richieste del mercato. 

La Certificazione BIO nel mercato.

Sappiamo che questo marchio è ormai sinonimo di fiducia, visibilità, prestigio. E’ la garanzia del rispetto di requisiti specifici e standardizzati che permettono l’ingresso dell’azienda nella vastità del mercato europeo, conferendogli il passe-partout della competitività nel settore, partendo dal rispetto della normativa condivisa dai Paesi dell’UE.

COME SI OTTIENE LA CERTIFICAZIONE BIO?

Viene rilasciata all’azienda solo se la stessa rispetta una serie di regole stabilite dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali.

Per raggiungere l’obiettivo finale, ottenere il Marchio BIO,  si devono seguire, step-by-step, una serie di fasi strettamente interconnesse e necessarie. Partono dall’azienda in questione, passano per la Regione ed arrivano al MIPAAF. Solo al termine della procedura, nel caso in cui il prodotto o servizio risulti conforme ai requisiti normativi, verrà rilasciata la Certificazione BIO.

A livello pratico, la certificazione BIO è ovviamente volontaria, pertanto nessuno è obbligato a ottenere questo distintivo.
Tuttavia, a differenza di altre certificazioni volontarie come ad esempio la ISO 9001, il Biologico affonda le sue radici in alcuni testi normativi specifici. 

Per questo motivo, una volta certificati, gli Operatori Biologici devono necessariamente rispettare degli “obblighi aggiuntivi” rispetto ai loro colleghi che lavorano al di fuori dello schema BIO, pena sanzioni civili, amministrative e penali oltre che la perdita della certificazione in caso di comportamenti che vanno contro a quanto previsto dallo schema.

Il controllo sull’effettivo rispetto dei criteri di certificazione da parte delle Aziende non è affidato ad organi di polizia ma ad appositi Enti di Certificazione.

Per questo motivo ogni Azienda che decide di intraprendere questo percorso deve collaborare in questo senso con un Ente di Certificazione.

CHI DEVE OTTENERE LA CERTIFICAZIONE?

Il Regolamento Europeo 834/07 è molto chiaro: tutti gli operatori che trattano a qualunque livello (produzione, preparazione e distribuzione) prodotti a marchio BIO devono sottostare al processo di certificazione. Troviamo quindi Operatori Biologici tra:

  • agricoltori e allevatori
  • industrie e imprese artigianali (es. mulino, frantoio, pastificio, laboratorio conserviero…)
  • negozi e punti vendita (supermarket, dettaglianti come ortofrutta, pescheria, macelleria quando vendono prodotti BIO sfusi)
  • piattaforme di commercio online

Esistono solamente due eccezioni a questa regola.
Possono infatti trattare prodotti a marchio BIO senza la certificazione solo:

  • operatori della ristorazione 
  • chi commercia prodotti BIO solo già confezionati (es. ortofrutta che vende fragole BIO esclusivamente in vaschetta, macelleria che vende sughi BIO solo confezionati da terzi…)
marchio bio
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